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SS 106: viaggio nello Stivale postato da Lar (17:10 8/12/10) |
~ link diretto a questo articolo Eccovi il prossimo articolo della mia rubrica, questa volta vi convicerò a comprare il giornale!Da Reggio Calabria a Taranto SS 106: viaggio nello Stivale testo Filippo Romano - GEO numero 60 - € 4,50 Per andare dalla costa tirrenica a quella adriatica, nell’estremo Sud della penisola, si può prendere solo una strada statale vecchia e scassata, la Jonica. Geo l’ha percorso documentando chilometro per chilometro. Questa la storia di un’avventura italiana, tra mare, colate di cemento, bellezze storiche dimenticate e imbrogli di mafia. C’è un’unica strada che collega la costa tirrenica a quella adriatica. La sua linea percorre tutta la pianta dello stivale dell’Italia, dalla punta al tallone: è la statale 106 Jonica, che nasce davanti allo stresso di Messina, a Reggio Calabria, e termina agli impianti dell’ex Ilva, a Taranto. La 106, in effetti, costeggia il mar Jonio passando per Calabria, Basilicata e Puglia. Ma ognuno dei suoi 491 chilometri testimonia di un territorio sfregiato da abusivismi, modernizzazioni affrettate, appalti che spesso finiscono nel nulla o in mano alla ‘ndrangheta. E ha una vita tutta sua, parallela ai paesi che collega, una storia di relazioni e scambi che si scopre quando la strada diventa familiare e si passa e ripassa su quei 491 chilometri coast to coast. Seguendo il suo chilometraggio ufficiale, il nostro viaggio sulla 106 inizia al limitare dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, con un cartello un po’ arrugginito che segnala la direzione per Taranto. Dopo una serie di curve arriviamo nella periferia di Reggio: attorno a noi agrumeti soffocati dal cemento delle case abusive, mattoni a vista e spuntoni di ferro dai tetti. Lungo la striscia di terra che guarda il paesaggio mozzafiato dello stretto, è evidente il contrasto tra bellezza e desolazione. Fuori Reggio, la strada sale e corre per un tratto lungo la scogliera a strapiombo sul mare regalando uno dei tratti più spettacolari dell’intero viaggio: Capo D’Armi con la vista dall’alto dello Jonio, dall’altra parte la costa siciliana con la presenza maestosa dell’Etna. Ma è l’estati di un momento, perché pochi chilometri più giù sprofondiamo nel disastro ambientale. Siamo arrivati allo scheletro di una gigantesca ciminiera e ai capannoni abbandonati delle Officine grandi riparazione delle Ferrovie dello Stato: ci troviamo in località Saline Joniche, davanti a uno degli episodi più controversi di distruzione del paesaggio italiano. Negli Anni ’70 qui fu edificato un polo industriale, la Liquichimica dei fratelli Costanzo, con 300 miliardi di vecchie lire stanziati dallo Stato che andarono in parte per l’acquisto dei terreni di una nota famiglia mafiosa locale, e per il resto svanirono in un’opera mai entrata in funzione, a causa della terra franosa di acqua salmastra. Accanto ci sono le Officine grandi riparazioni ferroviarie, un enorme scatolone di metallo abbandonato lungo la fiumara in cui dovevano lavorare più di settemila persone: la loro attività è durata un decennio scarso. Riprendiamo la 106, sconfortati. La Jonica calabrese attraversa ogni cittadina ma è una strada mai modernizzata, tristemente nota per il numero degli incidenti stradali: in media un morto ogni 5 chilometri. A questo dato si aggiunge il repertorio di cantieri sequestrati dalla criminalità organizzata. Uno per tutti è quello della “variante” di Palizzi, 70 chilometri a sud di Reggio, dove c’è voluto il crollo della galleria in costruzione per dimostrare la frode dei costruttori collusi con la ‘ndrangheta: usavano cemento scadente misto a sabbia. Prima la Grecanica, poi la Locride. Tra la bellezza naturale di fiumare e calanchi attraversiamo Melito, Africo Nuovo, Bianco, Bovalino, paesi cresciuti dal nulla in fretta, senza un piano regolatore, con le case mai finite dove si sa che le famiglie della ‘ndrangheta hanno un controllo capillare. A Roccella Jonica viene organizzato uno dei festival di jazz più interessanti d’Italia. La cittadina è fatta di poche case, modeste e dissestate all’esterno, moderne e curatissime all’interno. Paralleli alla statale, i binari del treno si frappongono tra le case e la spiaggia, meta di passeggiate estive e invernali. Qui vive Luca, un ragazzo all’ultimo anno delle superiori, che vuole diventare un atleta e per questo si allena ogni giorno correndo nello stadio più vicino, nel paese accanto. E qui incontriamo Anna, che studia Giurisprudenza all’Università di Reggio Calabria, dove ha una stanza in affitto, vive fuori casa solo da un anno e già sente il peso del contrasto tra le sue aspirazioni e le tradizioni, che vogliono la donna tra le mura domestiche. Sul lungomare c’è un murale che ricorda la vita stroncata di Peppino Impastato, politico e attivista siciliano, come monito per resistere alla mafia. Questi ragazzi hanno vissuto le manifestazioni successive all’assassinio del vicepresidente della Regione Francesco Fortugno, nel 2005, e ora sembrano aver perso la fiducia verso quell’impegno civile che sembrava una rivoluzione. Qualcuno ha ottenuto una candidatura politica, ma i criminali continuano indisturbati a fare affari e a riciclare dei soldi. In qualche modo, tutto è tornato alla secolare e “rassicurante” realtà di prima. Luca e Anna ci dicono che l’unica strada per vivere i loro sogni è stare lontano dai giochi: mafia e ‘ndrangheta sono ovunque, ma ad altre latitudini le sue maglie si allargano e si può costruire qualcosa di pulito. Lasciando Roccella si passa per Locri. Un venditore di pesce monta un tavolo da campeggio in mezzo alla strada, stende saraghi, polpi e altro e inizia a chiamare gente. Coma a teatro, Locri mostra le sue quinte di edifici a due piani, case da pescatori, tutto un po’ Anni ’70. Erba alta a bordo strada, copertoni di macchine, e a due passi dal centro una lapide ricorda il luogo dell’assassinio Fortugno. Proseguendo, entriamo a Siderno, dove siamo accolti da una Statua della Libertà in cartapesta, a bordo della strada. È la prima di una lunga serie che incontreremo. Un’altra l’abbiamo vista a Cropani, vicino Crotone, al km 262: si trova sopra una casa senza rivestimenti, e corona un timpano da tempio greco. La 106 entra quindi a Catanzaro Lido. Immergendosi nella densità abitative e caotica diventa una strada di paese, e di punto in bianco si trasforma in un imbuto che si intasa non appena parte il torpedone. Arriviamo di notte e c’è un grande incendio sulla collina, un chiarore agghiacciante che nel viaggio avevamo pano piano visto avvicinarsi. Dopo qualche chilometro dentro la città troviamo la gente assiepata sul ponte della ferrovia che guarda lo spettacolo terrificante. «Si sta prendendo la casa» sentiamo mormorare, mentre nell’aria si sparge l’odore soffocante della plastica bruciata. E un altro dice: «Le fiamme sono alte per via del vento», quasi sottintendendo che gli incendi normalmente non si comportano così. E dire che da queste parti non è strano veder andare a fuoco intere boscaglie o montagne: capita ogni estate, tra mille polemiche. Dopo un po’ capiamo che non c’è molto da vedere, e come tutti proseguiamo. Un enorme centro commerciale con chiesa annessa sullo svincolo per Catanzaro ci dà la direzione per Crotone. Al km 236 superiamo una colonna di persone che camminano a bordo strada con carrelli della spesa e borse di plastica: prima una coppia di ragazzi dal passo stanco, poi un gruppetto di otto. Sembrano viaggiatori d’altri tempi, una presenza un po’ surreale in un paesaggio dominato da automobili e cemento. Il via vai si intensifica, all’altezza dell’aeroporto di Crotone. Fermiamo qualcuno e capiamo che sono gli ospiti del centro d’accoglienza Sant’Anna, il Cpt più grande d’Europa. Di alcuni riusciamo solo a comprendere la nazionalità, perlopiù curda e afghana. Naturalmente si risveglia l’attenzione dei militari che li accompagnano, ma li rassicuriamo promettendo di non fotografare la base e così ripartiamo. Davanti al nostro bed & breakfast senza… breakfast, a Crotone, notiamo una serie di cartelli elettorali dai colori sbiaditi. In mezzo ai palazzi scorticati dal centro, formano un buffo arcobaleno di espressioni e fisionomie di ogni partito. È ora di pranzo, la macchina mangia chilometri ma noi no, le continue fermate per scattare e intervista hanno esaurito le nostre energie. Cominciamo a fare capolino oltre le vetrine dei bar, ispezionando a 60 km all’ora i banconi con panini e arancini, alla ricerca del più fornito. All’improvviso compare un grande monumento sul lato sinistro: vediamo un’enorme veste bianca e rossa e sopra di essa due braccia che si levano a benedire la statale, p ci fanno segno di avvicinarci. Le braccia appartengono a un Cristo gigante, che con i suoi soliti connotati gentili, alto come una palazzina a due piani, svetta sopra una folla di statue di Padre Pio, nani e Biancaneve, angioletti e veneri pudiche. Tra di essi c’è anche lei, la nostra compagna di viaggio, la Statua della Libertà. Per un attimo, tra il caldo e la fame, ci guardiamo increduli. E dopo non pochi secondi ci rendiamo conto di aver trovato l’autore di tutte le statue viste lungo la statale. In realtà si tratta di due fratelli, che continuano ala tradizione paterna decorando giardini, ingressi di ristoranti, timpani di case. I due non sembrano troppo sorpresi dal nostro viaggio e del fatto che vogliamo fotografarli. Certo vivere in mezzo a gnomi e santi può essere considerato altrettanto inusuale che documentare chilometro per chilometro la statale Jonica. «Dovete andare da Mario» dicono «ha un bar più avanti, lo riconoscerete perché davanti alla vetrina h una Statua della Libertà ma ha voluto un cono gelato al posto della fiaccola, l’abbiamo fatta noi. Quello si che è uno da fotografare». In effetti, il signor Mario ha storie da dire. È lui l’ideatore del gigantesco teschio di bufalo di cemento che fa letteralmente inchiodare i turisti poco più a nord, dopo una curva. Ci racconta anche che la statale sarebbe stata modernizzata se fosse passata la proposta di portare i caccia della Nato nella base di Crotone, e tante altre mille sue imprese, ma la strada chiama. All’altezza di Mandatoriccio, al km 286, dopo una discoteca a forma di yacht notiamo una collina con un castello rosa e bianco. Non resistiamo, e quindi è d’obbligo la svolta a sinistra verso la costruzione da fiaba. Alla fine della salita il cancello nero, sula quale campeggiano un’aquila e le iniziale “NF”, è aperto a tutti. In pochi istanti ci ritroviamo a salire su scale in stile palladiano, circondati da una quantità impressionante di statue femminili e leoni in posa. «Venite! venite!» dicono due voci maschili con forte accento calabrese. Alla fine delle scale scorgiamo due corpi abbronzati di uomini di mezz’età e de grandi sorrisi. «Volete vedere il castello? Andate, andate di sopra! Noi qui ci lavoriamo, lavoretti, giardino… bello, eh?!». Conveniamo, e finiamo per sapere che siamo nel castello di Nicola Flotta, costruito cinque anni fa su un0area di 30mila metri quadrati, oggi l’apoteosi del matrimonio tra le famiglie benestanti della zona. Fuori lo stile è pseudo - medievale, in tinte confetto, e dentro l’arredamento in stile Versailles vanta statue di strani animali mitologici, con la testa del leone al posto di quella del toro su un corpo umano, tutte realizzate in Cina. Agli sposi viene proposto anche di entrare nel castello su una carrozza con i cavalli bianchi. Usciamo storditi dalla reggi di Barbie, mentre due delle ragazze in shorts e ogni genere di frigge sparsa su borse e occhiali salgono le scale e parlottano di truccatrici e catering. Divoriamo ancora chilometri sulla route 106. Rossano, Corigliano, la pian di Sibari e tutta la loro popolazione convivono con due ciminiere, che sembrano esattamente la fabbrica di un disegno di bambino. La centrale Enel di Corigliano è al centro di una diatriba sul suo futuro, come a Saline Joniche. Da una parte il progetto di trasformarla in centrale a carbone, e c’è un lenzuolo appeso a una casa lì davanti che auspica una veloce trasformazione per non perdere posti di lavoro, dall’altra la denuncia dell’incidenza delle morti per tumore tra quelli che abitano intorno alla centrale, riportata dalla stampa. Morire di cancro o di dame, purtroppo, è un motivo ricorrente del territorio. Lo ritroveremo anche a Taranto. Oltre il confine tra Calabria e Basilicata la 106 sembra una superstrada a quattro corsie che ci porta a Metaponto, attraverso l’ultimo tratto di pianura che si affaccia sullo Jonio. È una terra fertile, bonificata durante il fascismo e debellata dal flagello della malaria. Lungo il tragitto riconosciamo l’edilizia popolare del Ventennio costruita per i contadini mandati a lavorare quaggiù. Il tempio di Era, invece, è una visione sublime e straniante, con i Tir che gli sfrecciano davanti: in quest’angolo si toccano gli estremi della storia dell’area ionica. «Qui si sta bene, io vengo spesso con mio marito, poi vede quei ragazzi?». Ora siamo nel Tarantino, a ridosso dell’area industriale dell’ex Ilva, e scopriamo il fiume Tara. Sulle sue rive incontriamo una signora con il marito, seduti su un sedia da spiaggia, e degli adolescenti che si tuffano nel corso d’acqua dal ponte della vecchia 106. Siamo a due passi dai bacini salmastri, dove si affacciano i depositi industriali della città. I due coniugi ci spiegano che prima della costruzione della fabbrica, nel Tara ci si veniva a bagnare per le qualità terapeutiche delle acque. A pochi passi dal fiume ci aspettano le cisterne bianche del petrolchimico, e la fine del nostro viaggio. La 106 qui è una sopraelevata da cui si guarda il mare e il porto industriale, tra le distese di gomme pneumatiche sulle banchine e le gru. Sembra quasi di essere sul Mar Nero. In qualche modo tutti i porti industriale si assomigliano, ma solo questo sorge in una zona con uno dei più alti tassi di leucemia di tutta Europa. Ed eccoci alle battute finali. La statale 106 termina, o comincia, con un ponte che arriva a due passi dal cuore della Taranto vecchia. L’abbiamo percorso tutta: l’ultimo segnale del chilometraggio dichiara 491. Ma le impressioni e le immagini rimaste nella nostra testa sono molte, molte di più. |
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